BARONESS - Yellow & Green

Relapse Records
Sono passati tre anni da “Blue Record”, nei quail i Baroness sono stati in giro a suonare, ma a anche a concepire queste nuove canzone, ben diciotto, che costituiscono “Yellow & Green”. Nuovo atto acido, ancora rock sopra le righe. Nuovo carnevale di suoni crudi o sfigurati dall’effettistica. Materiale nuovo di zecca, raccolto in due CD oppure in doppio vinile, che serve ad esporre tutta l’inventiva, la fantasia e la libertà formale di questa band statunitense. “Yellow & Green” è un universo che si espande, si contrae, esplode in stelle multicolori o risucchia ogni cosa in sporadici buchi neri. Il sound è sempre il rock, ma spesso ha i toni fragorosi del metal, oppure ha la contaminazione di qualcosa che viene dal passato o comunque da altri generi. “March to the Sea” è il primo vero segnale di tutto ciò. Non che prima di questa canzone le altre non abbiano molto da dire. No, non è così. Eppure lo sviluppo su toni rock, ma con melodie e un’elettronica amorfa portano alla mente atteggiamenti della new wave. Sono riflessi pallidi, bagliori improvvisi. “Yellow & Green” produce suoni semplici oppure roboanti, gonfiati da apparecchiature per renderli più densi e a tratti alieni. La voce di John Baizley (autore anche dell’onirica copertina) si poggia con delicata essenza sulla musica. Aderiscono insieme e il senso di compiutezza dei brani è completo. “Mtns. (The Crown & Anchor)”  ricorda dei Red Hot Chili Peppers rivisitati, con una leggera patina di psichedelia anni ’60. “Little Things” è una canzone radiofonica, perché semplice, immediata, quasi ballabile e “Cocainium” ha anch’essa un retaggio new wave anni ’80, mentre “Psalm Alive” mischia elettronica e dark. I Baroness si dimostrano poliedrici, quasi un cristallo grezzo e guardandovi attraverso si scompone ogni elemento stilistico possibile. A momenti più soffusi e docili, come l’elegiaca e soave “Stretchmarker” o “If I Forget Thee, Lowcountry” (la quale mi ha ricordato atmosfere alla Popol Vuh), rispondono minuti di fuoco, caotici ed esplosivi, come in “Sea Lungs”, alternative rock feroce e corrosivo. Il rock più puro ricompare in “The Line Between”, “Board Up the House” o in “Take My Boness Away”. Non manca una canzone dai tempi dilatati, cioè “Eula”, circa sette minuti di pause acustiche, alternative  rock-grunge. Quanto materiale ancora ci sarebbe da citare o arditamente da descrivere e raccontare, ma non si può. La materia è tanta e i suoni hanno uno spessore e un peso specifico che in fin dei conti supera il cospicuo lotto di canzoni. I Baroness, per chi li conosce, sono una garanzia. Ogni loro nuovo lavoro è un ulteriore passo in avanti, ma soprattutto un evento musicale interessante. Se l’album rosso prima e quello blu poi hanno fornito sound in parte diversi tra loro, questo “giallo e verde” sembra aver semplificato, e non poco, i suoni, gli arrangiamenti e in parte il modo di comporre canzoni. Più diretti, meno psichedelica, più essenzialmente rock: questi sono i Baroness del futuro. Anzi, sono quelli di questo presente.
 
Voto: 7/10
 
Alberto Vitale