ROME IN MONOCHROME, Valerio Granieri: “Siamo diventati un essere unico a sei teste, molto diverse tra loro"


“Siamo diventati un essere unico a sei teste, molto diverse tra loro, ma che comunicano ad un livello subcosciente in una sorta di intelligenza collettiva chiamata Rome In Monochrome”

Incontriamo Valerio Granieri, cantante e compositore nei Rome in Monochrome.

Valerio, quasi dal nulla spunta pochi mesi fa e ricorre ora nell'ambiente "metal" underground romano, tanto scritto quanto "suonato", il nome "Rome in Monochrome". Vi abbiamo sentiti definire musicalmente in modi diversi e spesso reiterati, mutuati da quello che forse è l'input che voi stessi date al pubblico per collocarvi in un genere (post / doom / ethereal / art / slowcore etc.). Facciamo il punto della situazione sul motivo musicale dei RiM: da dove "arrivate" e che cosa mettete in suoni, quali -se esistono- sono le influenze confluite in voi? 



Ciao, innanzitutto. Riguardo alle influenze, che dire…senz’altro prendiamo le mosse dalla generazione doom dei primi anni 90, che fa parte dell’imprinting di diversi di noi. Parlo di My Dying Bride, Paradise Lost, Anathema e Katatonia soprattutto, che sono stati senz’altro uno dei punti di partenza del progetto. Ma mai, assolutamente mai, ci siamo prefissi l’obiettivo di clonare quei suoni, come non ce lo siamo posto relativamente a nessun altro riferimento specifico: troviamo e trovo limitante, specialmente a questo punto della vita, costringersi in certi steccati musicali. Le influenze sono tante, siamo sei ed abbiamo tutti ascolti piuttosto variegati: nel nostro sound sento echeggiare Slowdive, Cocteau Twins, Mogwai, Agalloch, Alcest, Mono, Cure, Godspeed You! Black Emperor ovviamente, ma anche la desolazione di Neil Young, dei Red House Painters, dei Sixteeen Horsepower, come pure Brian Eno, R.E.M. e Radiohead…sono troppo coinvolto per essere obiettivo ed, inoltre, questo è il mio punto di vista e sicuramente non corrisponde se non in parte a quello degli altri membri del gruppo. E poi mi piace moltissimo leggere o ascoltare da chi si interfaccia con noi la sua visione del nostro sound, sento cose sempre diverse e paragoni che mi incuriosiscono, anche relativamente alla mia voce. Alla fin fine non mi piace molto definirci, mi sembra limitante soprattutto per chi ci ascolta che invece, se non lo faccio, resta libero di trovare la “sua” lettura del nostro sound: troppe formule e definizioni sono limitanti per gli ascoltatori, più che per noi. Se proprio devo farlo dico che facciamo musica scura e negativa che utilizza elementi mutuati da post rock, slowcore, shoegaze, ambient e doom ma anche da certe influenze pop per svolgersi e spiegarsi. So già che non ci saranno stravolgimenti perché ci interessa mantenere una certa coerenza di fondo specie a livello di mood, e quindi credo il nostro sound continuerà ad ospitare tutto quello che riterremo necessario per noi stessi attraverso la musica, partendo da una negatività ed un’oscurità di fondo che sono il cuore dei Rome In Monochrome.   

Esiste, leggiamo fra le tante recensioni ed interviste, una dicotomia dell'origine della band, fondata pare dal chitarrista Gianluca Lucarini (già Degenerhate ed Exhume to Consume) che ne ha lungimirato l'esistenza e messa in forma pare da Valerio Granieri che l'ha trasformata in organismo. Vogliamo dire una parola definitiva a riguardo? 



Perché no: più o meno corrisponde alla realtà. Gianluca aveva l’idea di questo progetto che all’epoca, per tutti, era un side project e mi ha proposto di partecipare (visto che già ci conoscevamo), facendomi ascoltare una versione ancora scheletrica di Until my eyes go blind (che poi è finita su Away from light). Io all’epoca facevo tutt’altro, avevo un progetto slowcore (To The End) ed uno post metal (Post Ghosts, entrambi con alcuni degli attuali membri dei Rome In Monochrome) e sono stato subito entusiasta: come mia abitudine ho iniziato subito a comporre materiale. Abbiamo quindi iniziato, con Gianluca, ad arrangiarlo e suonarlo insieme ed abbiamo capito che dovevamo diventare una band vera, che il progetto si espandeva. Dopo una serie di cambi di line-up i Post Ghosts ed i Rome In Monochrome sono diventati una sola cosa e la fusione ha portato in eredità anche un paio di canzoni del precedente repertorio dei primi. Tutto questo materiale (il mio, quello di Gianluca e questi pezzi) è stato “lavorato” ed arrangiato da tutta la band e, con l’aggiunta di qualcosa di nuovo e scritto per l’occasione, è divenuto “Away from light”. 

I Rome in Monochrome hanno attraversato con un solo balzo, atletico, lo spazio che esiste fra un EP d'esordio (Karma Anubis, Visonaire Records, 20 agosto 2015) ed un full-length di qualità (Solitude Productions, 16 marzo 2018) che vi ha fatto salire di livello nella popolarità locale (facendovi affacciare anche su quella estera) e che è stato registrato, mixato, masterizzato da nomi autorevoli come quello di Fabio Fraschini e Dan Swanö e anche arricchito dalla presenza in un brano di un collega impattante come Carmelo Orlando dei Novembre con il suo screaming in Paranoia Pitch Black. L'album è inoltre pubblicato da una bella etichetta di nicchia ma ben accreditata in ambito doom, la russa Solitude Productions. Fortuna o bravura? O un combo dei due?

In un panorama musicale ampio come quello di questi anni l’offerta è talmente facile da raggiungere (anzi, arriva con prepotenza sui nostri mille account), che è difficile farsi ascoltare per davvero da qualcuno, invece che consumare e gettare via in fretta al momento dell’arrivo del prossimo nome… sono anni, musicalmente, pieni di opportunità ma difficili e pieni di insidie. Mi piace pensare che siamo stati bravi ma ritengo sempre sia meglio lasciarlo dire agli altri: d’altro canto penso però che in questi anni la fortuna conti meno di altre epoche, in cui magari c’era bisogno di essere notati da qualche lungimirante direttore artistico…oggi la capacità di districarsi, relazionarsi e farsi notare in mezzo a tutti queste proposte, canali e situazioni mi pare conti di più. Finora sembra che l’abbiamo avuta, speriamo di continuare. Quanto a Carmelo, chiaramente c’è un legame personale alla base della sua partecipazione. Che dire, è stato emozionante vederlo lavorare in studio ed il risultato, secondo noi, è perfetto. Ha catturato in pieno la disperazione del pezzo. 



Avete messo su in poco tempo un interessante background in fatto di partecipazioni a festival e presenze su palchi calcati da band di pregio, questo ha arricchito il vostro spessore musicale? 

Indiscutibilmente. Queste esperienze non fanno altro che far crescere in modo esponenziale, non c’è niente da fare. Si ruba sempre con gli occhi, ogni dettaglio può essere importante, parole e situazioni vanno interiorizzate e utilizzate nel proprio contesto e con le proprie regole. Le idee sono lì per essere colte, condivise, espresse e trovarsi nel “raggio d’azione” di grandissime band che hanno fatto la storia della “nostra” musica porta a stare a contatto con sensazioni ed esperienza. Abbiamo appena vinto il contest per suonare all’Agglutination quest’estate e ne siamo felicissimi: anche lì ci saranno grandissime band da cui potremo solo apprendere. 

Siete una band molto "grande", sei elementi e ben tre chitarre: qual è il livello di partecipazione dei membri della band alla creazione di un brano, di un disco? Tutti voi siete impegnati anche in altri progetti apparentemente guizzanti in direzioni diverse, aiuta questa varietà stilistica? 

Beh, diciamo che l’input iniziale (con poche eccezioni) in genere viene da me come il primo incastro parole/melodia perché i testi vengono molto spesso scritti per primi, ma il livello di partecipazione di tutti è massimo. Se penso alle versioni primordiali e scheletriche dei brani ed a cosa sono diventati oggi li sento esplosi e deflagrati. È tutto fondamentale, ognuno di noi aggiunge, sullo scheletro esistente, il suo personale contributo al proprio strumento o con idee sull’arrangiamento generale: siamo diventati un essere unico a sei teste, molto diverse tra loro, ma che comunicano ad un livello subcosciente in una sorta di intelligenza collettiva chiamata Rome In Monochrome, ed è sempre stupefacente per me constatare come persone così diverse riescano a trovarsi in un “luogo” comune ed a diventare ingranaggi della stessa macchina. Quanto agli altri progetti “laterali” senz’altro contribuiscono a mantenere la mente aperta e focalizzata anche su cose che non siano RiM, servono un po’ ad uscire dalla macchina ed a farsi un giro fuori: suonare cose differenti come grindcore (i Degenerhate di Gianluca e Marco), brutal/slam (Exhume to Consume, sempre Gianluca e Marco con in aggiunta Alessio), death thrash melodico (A Taste of Fear, Flavio) slowcore e cantautorato oscuro (Aurora Nowhere, io da solista con vari featuring) ci fa ricaricare le batterie e vedere mondi diversi in modo da essere aperti e freschi quando “torniamo”. Peraltro, non essendo i Metallica, l’ordine di importanza dei progetti in cui siamo impegnati lo decidono gli avvenimenti e le cose che ci succedono, non solo noi, probabilmente. Senz’altro RiM è la cosa più grande ed importante in cui siamo impegnati e di questo teniamo tutti conto. 


Veniamo al discorso compositivo in senso più stretto: i pezzi dei Rome in Monochrome sono molto "carichi" pur eleganti nel passo e nell'arrangiamento, sono pregni di un senso di oppressione e di sgomento. Essendo tu autore principale te lo avranno chiesto molte volte ma forse ti va di aiutarci a conoscere il senso dei testi, spesso affilati, privi di ridondanza riempitiva e tuttavia efficacissimi nel veicolare quei sentimenti che anche sul palco sembrate poi incarnare con un look scuro, un mood fosco e un assetto drammatico. Chiariscici le idee a riguardo, contravvieni per un attimo all'imperativo "unisciti al buio" con il quale chiamate il vostro pubblico alla vostra musica.

Hai colto il punto, essere affilato e tagliente è una cosa a cui tengo molto. Disprezzo da sempre l’enfasi retorica e la ridondanza, non mi sono mai piaciute e cerco di non caderci, nella musica come nella vita: sono piuttosto cinico e sarcastico. Seppur molto amante dello stile di Morrissey, sia da solista che con gli Smiths, non mi piace molto raccontare storie come lui fa quasi sempre (e sempre mirabilmente) mentre invidio e cerco di coscientemente di imitare quel modo delicato e carazzevole che usa per dire cose terribili e raggelanti: amo molto lo stile “astratto” di Tompa Lindberg con gli At The Gates (ed in tutti gli altri suoi progetti) per esempio, quel modo di violento di pennellare immagini quasi accennandone il senso senza definirle del tutto, accostando termini opposti e creando ossimori o inventando neologismi o crasi tra concetti. Il senso generale, ragionando in questi termini, diventa molto sfumato e quasi secondario, è più un inquietante quadro astratto che un paesaggio con un cielo in tempesta, se mi passi il paragone: trovo che questo sia un elemento di forte distinzione tra noi ed il classico approccio doom “romantico”, con cui sono cresciuto ma non mi interessa replicare.
A me sembra di ritrovarmi sempre a parlare dell’impossibilità di comunicare e di condividere ad un livello profondo, dello scarto spaventoso e apocalittico che c’è tra lo slancio dell’uomo verso l’eternità e la finitezza e, in definitiva, la mediocrità del suo effettivo essere, della crudeltà del dio che possa aver architettato questo scherzo…però, in realtà, sono felice di sentire interpretazioni differenti che i nostri fans mi danno, è sempre interessante il punto di vista degli altri. Ci sono un paio di tracce che escono in parte da questo discorso, ed in cui si parla di amore finito, fallito e seppellito: ma le donne che vivono in queste tracce sono archetipi e non persone, e pur partendo da persone reali mi sono ritrovato a mischiare le carte ed alla fine in ogni canzone vive più di una di loro. La nostalgia, in questo caso, non è un romantico cullarsi ma un urlo di dolore ed i ricordi non accarezzano ma fanno male: è così che la vedo, perché in fondo un certo slancio romantico mi è sempre mancato ed il mio cinismo ha sempre il sopravvento, alla fin fine. Molta dell’incompiutezza o della nebulosità, passami i termini, dei miei testi non così assertivi è una scelta, voglio che l’ascoltatore possa “abitare” i nostri brani, non subirli e basta: questa caratteristica credo derivi dalla mia passione per il post rock o comunque per la musica strumentale, anche classica, tutta musica che crea spazi e luoghi, che può essere vissuta e, ribadisco, non subita. Voglio che ci ascolta pensi di avere spazio all’interno dei nostri brani, non che si trovi davanti ad un inattaccabile monolite, ecco. 


Cosa ci porta il futuro dai Rome in Monochrome?

Suonare in giro, innanzitutto: ci stiamo lavorando e vedremo cosa riusciremo a fare: il successo e le belle sensazioni del release party ci hanno fatto diventare ingordi e ne vogliamo ancora. “Away from light” prende sempre più vita ogni volta che lo suoniamo dal vivo e lo sento e lo sentiamo crescere ogni volta un po’ di più. Stiamo inoltre dibattendo da molto tempo sulla scelta di una cover da arrangiare secondo il nostro mood ed il nostro stile, ci sono tanti nomi in ballo e, non appena saremo d’accordo, procederemo. Last but not least abbiamo iniziato a lavorare al nuovo album: ho moltissimo materiale da parte, direi quasi troppo, e non solo io…ne abbiamo già discusso, sappiamo che vogliamo espandere il nostro sound spostando i confini di quello che abbiamo fatto un po’ più in là. Sperimenteremo nella forma toccando più “estremi” e contaminando di più il nostro sound, mantenendo il mood oscuro e freddo di “Away from light”…d’altronde le tematiche testuali sono più o meno quelle, non avrebbe senso snaturare le nostre sonorità. Abbiamo iniziato ad arrangiare un pezzo e lo adoro, in fondo questa fase è quella che preferisco…vedremo quanto ci vorrà a concludere il tutto. Abbiate fiducia, non vi deluderemo.   

Una curiosità: so che sei un collezionista di musica ed un ascoltatore avido: cosa stai ascoltando in questi giorni?

Dunque, anzitutto il cofanetto “Music for installations” di Brian Eno (uno dei regali che ho ricevuto per il mio recente compleanno), una della influenze che vorrei amplificare nel nostro prossimo futuro; poi “The demonstration” dei Drab Majesty, “Solar Lovers” dei Celestial Season, “Blue moon” dei Breathless, “The Pearl” di Brian Eno/Harold Budd, “The fall of hearts” dei Katatonia, “Helios/erebus” dei God Is An Astronaut, “Spheres” dei Pestilence, “Metal cares” dei Picastro, “Ancient god of evil” degli Unanimated, “Until all the ghosts are gone” degli Anekdoten, “Eat the elephant” degli A Perfect Circle. Più o meno è tutto, nell’ultima settimana circa, tenendo conto che il cofanetto di Brian Eno è composto da sei cd, è impegnativo. 

Direi…era l’ultima domanda, saluta i nostri lettori

Ciao a tutti, ci vediamo in giro. Join the cult of the absence of color.   

Simona Rongione