DOOMSDAY OUTLAW - Hard Times

Frontiers
Gli inglesi Doomsday Outlaw con il secondo disco intitolato Hard Times del 2018 si confermano una piacevole realta' del panorama musicale. La band si muove in territorio classic/melodic hard rock, un tipo di musica che non puo' mai tramontare perche' la genuinita' delle melodie e la grinta sincera che spesso emerge da questo tipo di proposta assicura sempre un pubblico di base. Il gruppo ha nella calda voce di Phil Poole un'ottima carta da giocare, cosi' come suonano convincenti le chitarre di Steve Broughton e di Gavin Mills. Indy Chanda al basso e John "Ironfoot" Willis alla batteria tengono solidamente unito il tutto. La title track apre l'album con un bel riff caldo e bluesy. Over And Over alza subito il tiro con un andamento piu' aggressivo. Nella stessa direzione va il terzo brano Spirit That Made Me. La pausa melodica giunge con Into The Light, ballad pianistica in cui la voce di Phil Poole si rivela coinvolgente e versatile. Un brano molto bello e struggente. Bring It On Home porta lo stesso titolo di un grande pezzo dei Led Zeppelin del secondo leggendario album, e si tratta comunque di un pezzo roccioso e graffiante. Days Since I Saw The Sun ha un andamento agile e accattivante. Will You Wait e' forse il pezzo piu' riuscito dell'intero album. L'inizio e' arpeggiato e melodico, poi parte un inquieto cantato narrativo che esplode in un crescendo molto emotivo. Break You propone sonorita' funky, ricordandoci che questi elementi hanno fatto capolino nell'hard and heavy sin dai primi anni Settanta. Molto ficcante Come My Way che si gioca su una ritmica sospesa e su un ennesimo bel riff. Inizio melodico per Were You Ever Mine con belle e suggestive sonorita' chitarristiche, poi tutto si risolve in un altro mid-tempo. Il disco viene chiuso da un altro rock cadenzato e sincero, Too Far Left To Fall. Gruppi come i Doomsday Outlaw sono la dimostrazione che l'hard classico e basico, bluesy e dal feeling certificato, non finira' mai di esercitare fascino. Hard Times e' un disco che va ascoltato e apprezzato. 

Voto: 7/10

Silvio Ricci

La Frontiers Music, l’etichetta italiana che rappresenta ormai da tempo un punto di riferimento internazionale in ambito hard rock, è ben lungi dal sedersi sugli allori dell’aver rilanciato l’AOR e l’hard rock melodico dopo l’eclissi degli anni novanta, anche attraverso la riscoperta delle principali band e dei musicisti più rilevanti dell’epoca (Toto, Journey, Whitesnake…). Non si sottrae, infatti, dal provare ad allevare un discreto gruppo di bands nuove, sebbene sostanzialmente allineate ai generi che contraddistinguono la label. Se il versante scandinavo di tale roster di nuovi virgulti appare conforme ai dettami del rock melodico/AOR, da altre provenienze geografiche si scoprono nuove leve versate, invece, per un suono più sporco o bluesy, nonché carico di groove. Basti pensare agli Inglorious, ed ai Bigfoot, tra i più apprezzati giovanotti dediti ad un rock vitale sebbene devoto ai classici. E’ il caso anche dei Doomsday Outlaw, quintetto del Derbyshire costituito dal cantante Phil Poole, dalla doppia chitarra di Steve Broughton e Gavin Mills, e dalla sezione ritmica formata da John’Ironfoot' Willis (batteria) e Indy Chanda(basso). Nel maggio del 2016, dopo vari concerti, la band ha debuttato con l’autoprodotto “Suffer More”, ben accorto dalla critica. La Frontiers si accorge del gruppo e lo mette sotto contratto per questo secondo lavoro, dal titolo “Hard Times”. Hard Times è aperto dall’omonima title-track e parte nel migliore dei modi, imperniata su un riff ipnotico, la voce ha calore e immediatezza, il gruppo suona compatto verso un chorus, che ricorda qualcosa dei primissimi Tesla, e che si memorizza facilmente, facendo scuotere le terga in una fumosa dancing hall, con tanto di birre copiose e capelli a metrate in evidenza, ottima freccia iniziale corroborata da un buon lavoro sui tom di John Willis. Over And Over è brutalizzata da un riff chitarristico di grande spessore spianante, l’ugola di Phil Pooledomina il panorama, il campanaccio sulla gran cassa si fa sentire e l’inciso va nella stessa direzione del primo pezzo esposto, mentre Spirit That Made Me suona quasi class-metal, chitarre gonfie, asfaltanti, l’atmosfera s’incendia e il cantato cantilenante sfocia nel hard puro, una bella stilettata senza dover ricorrere a copie o cliché, completato da un solo della sei corde sodo, e rallentamenti che colorano al meglio la stesura finale. Into The Light è ballad pianistica di valore, con pianoforte e violino che accompagnano la toccante ed emozionale performance del frontman. Bring It On Home diventa travolgente, sia per il ritmo, sia per le corde vocali granulose, tinteggiate di asprezza di Phil Poole, e un riff micidiale saccheggia la dispensa degli alcolici, con la line-up che si muove massiccia e consistente arieggiando spigolature, risultato perfetto: segue Days Since I Saw The Sun, brano più rotondo che scorre briosamente, mentre la seguente Will You Wait è una ballatona su chitarra acustica, che poi si sgretola e rinasce all’interno di coordinate più succulente ed elettriche. Cresce l’intensità e anche la cifra espressiva, una song che diventa rock con una buona dose di drammaticità e che ricorda I Still Love You dei Kiss, cantata dal grande Paul Stanley: non stiamo affermando che sia il clone, ma certe coordinate rimandano a quella spremuta di pathos in salsa americana. Break Youprende il via da una pianola funky e calpesta il sentiero senza indugio, corroborata da una bella prova generale, con la voce che vola alta su strumenti eccitati e pronti a sparare, impreziosita da un bel intervento solistico di key assai lisergico e psichedelico, poi pattern di basso-batteria per lo scoccare di Come My Way con tanto di chitarre tremolanti, e il quattro corde che rende tellurica la song, pronta a trasformarsi in casinara e addensata sul ritornello potente, ennesima prova delle capacità di questi cinque ragazzi britannici che suonano come più piace a loro, ottenendo consensi. Were You Ever Mine è un up tempo che distilla hard rock d’annata, solismo delle chitarre che va incontro ad una colata piroclastica, bruciandola di netto; il sigillo finale al platter si configura con Too Far Left To Fall, ritaglio che ha sei corde grandi come un transatlantico, vocalità straight edge e una conduzione alternative, un bel frammento che conferma eclettismo e poliedricità della band. "Hard Times" è una release che non tradisce le attese della vigilia, la cui qualità si percepisce soprattutto nel buon livello tenuto dai cosiddetti fillers (quali ad esempio "Days Since I Saw The Sun" e la quasi bluegrass "Break You"), ma anche nella capacità di osare, proponendo pezzi elaborati e dalla complessità non indifferente. Se una pecca si può rimproverare ai Doomsday Outlaw, è quella di una certa ridondanza e ripetitività stilistica che risalta in buona parte dei pezzi, facendo sorgere qualche dubbio sulle concrete possibilità di evoluzione della band, forse schiacciata da un genere incapace di offrire troppi nuovi spunti in questo senso. 

Voto: 8/10 

Bob Preda