REEF - Revelation

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E’ trascorso così tanto tempo dall’ultimo album in studio dei Reef (Getaway del 2000), che quasi ci eravamo dimenticati della loro esistenza. In realtà in questi diciotto anni, la band originaria di Glastonbury, oltre a scrivere le canzoni che avrebbero composto Reveletion, quinto full lenght della loro discografia (la stesura di alcuni brani è risalente addirittura al 2001), hanno affrontato cause civile, modificato la line up, con l’uscita del chitarrista Kenwyn House e l’ingresso di Jesse Wood, figlio del celebre Ronnie, e hanno continuato a suonare senza soluzione di continuità, partecipando a numerosi festival e testando sul palco, nell’ultimo anno, il nuovo materiale. Le canzoni che compongono Revelation sono state oggetto di un lungo periodo di genesi, durato due anni e mezzo di limature e perfezionamenti, e poi sono state registrate in Irlanda sotto la supervisione di George Drakoulias, figlio artistico di Rick Rubin, e produttore che già aveva messo mano al secondo, e leggendario, album dei Reef, Glow (1997).Il biglietto da visita offerto dalla title track, va detto, non è proprio dei più edificanti: riesce un po’ troppo pesante, nella dote del produttore, il calco dai Black Crowes (di “By Your Side”, nello specifico), con quell’idea di musica urlata e ganza che verrà poi replicata anche in “Precious Metal”, tra risaputi vezzi hard-rock e una regolarità da mestieranti fin tediosa. L’aggiornamento banalizzante di un sound per certi versi già bolso è tuttavia bilanciato a dovere dall’invidiabile energia sprigionata, nonché dalla tanta ciccia nel lavoro da axeman virtuoso di Wood, e pace per la fisiologica maniera nell’ostentazione della grinta (a partire dall’accorato duetto di “My Sweet Love” con una rediviva Sheryl Crow). La band conferma così di avere un’anima e ribadisce senza timori reverenziali le originarie affinità nei confronti dei già citati Crowes, spingendo anzi a tutta in direzione gospel (si senta “How I Got Over”). Gary Stringer certifica le sue credenziali di cantante di razza, esplosivo e ferino ma all’occorrenza anche opportunamente disciplinato, in numeri più prossimi al soul o dalle marcate evocazioni spiritual (la prova di bravura di “Provide”). Ha dalla sua una propensione teatrale abbastanza genuina perché rude e mai troppo pedante, un espediente che in questi territori musicali paga ancora piuttosto bene soprattutto a pilota automatico innestato. Se “Revelation” suona anche così divertente, buona parte del merito va attribuita alla prominenza prospettica delle sue animazioni vocali, alle curatissime architetture armoniche che riescono a non far pesare in maniera eccessiva il massivo ricorso ai cliché di genere. L’entusiasmo compensa insomma un’originalità ridotta per forza di cose al lumicino. Il quartetto inglese tiene a dimostrare un’invidiabile tonicità muscolare, mentre l’insistenza sul tema della rinascita fa il resto, tradendo un’aspirazione senz’altro legittima ma piuttosto limitante a livello espressivo. Meglio, decisamente, quando scelga di non nascondere i segni del tempo e lasci scorrere la propria musica senza il gravame o l’ansia delle esasperazioni, perché la leggerezza è una di quelle qualità che continua a donargli. La scimmiottatura di marca Stones, per chi se lo stesse chiedendo, arriva sul filo di lana con “Darling Be Home Soon”, nel segno dell’ordinaria amministrazione, appena prima di un finale in scioltezza che è puro Chris Robinson, fatte le debite proporzioni: un gran cerimoniere sanguigno, ferroso, invecchiato a meraviglia. Qui come nelle ballad tutte cuore – un’ispirata “Don’t Go Changing Your Mind”, la più leziosa “First Mistake” – si marca la misura di un album non certo imprescindibile ma sufficientemente onesto e persino volenteroso nei suoi aneliti di riscatto. 

Voto: 7/10 

Bob Preda