Deep Purple, live report Arena di Verona - 09/07/2018


I Deep Purple sono da oltre un anno in giro per il mondo nell'ambito di quello che viene chiamato il Long Goodbye Tour. Non si sa quanto potra' durare questo lungo addio, ma dopo averli visti in azione all'Arena di Verona viene spontaneo pensare che non ci libereremo di loro tanto presto. Chi scrive lo dice con ironico affetto. I Deep Purple sono padri fondatori di tutto l'universo hard and heavy e rappresentano un patrimonio di classe musicale e di coerenza artistica di cui il mondo sentira' la mancanza quando arrivera' davvero il momento della pensione. I Deep Purple sono un'idea di musica, un'idea dove le tastiere hanno un ruolo importante quasi quanto la chitarra, un'idea in cui la musica classica si fonde con il rock molto prima che diventasse si moda, un'idea dove melodia e musicalita' non vengono meno neanche in mezzo alla tempesta sonora piu' sfrenata. Sono ormai passati anni da quando il chitarrista Ritchie Blackmore e il tastierista Jon Lord, per motivi diversi, hanno lasciato il gruppo. Ormai il momento dello strappo emotivo e' passato.

Il chitarrista Steve Morse e il tastierista Don Airey sono ormai un porto sicuro, una rassicurante ancora di salvataggio. La loro classe, la loro fluidita' e la loro indiscutibile padronanza fanno passare sopra a quell'idea di pericolosita' scenica e sonica che derivava dalla presenza sul palco di due musicisti che hanno creato un sound chitarra/tastiere unico nella storia del rock. Da tempo i Deep Purple sono una band diversa, il cantante Ian Gillan modula la sua voce matura su registri diversi da quelli del glorioso passato, e la sezione ritmica formata da Roger Glover e Ian Paice e' ancora solida e inespugnabile. I tre membri storici hanno superato i settant'anni e i due "nuovi arrivati" sono solo di qualche anno piu' giovani. Questo non impedisce ai Purple di di tenere ancora il palco per quasi due ore con vigore, passione e maestria. La serata e' aperta dagli ottimi Temperance Movement, inglesi dal sound sudista con gia' tre album alle spalle e artefici di un sound caldo, coinvolgente e piacevolmente classico. I Deep Purple vengono ringraziati piu' volte dal gruppo spalla, a riprova di quanto sia importante per band "minori" di avere l'opportunita', aprendo per grossi nomi, di suonare di fronte a platee che per loro non si raggrupperebbero. La scaletta dei Deep Purple non presenta sorprese rispetto alle ultime apparizioni, ma nessuno chiederebbe loro di modificare troppo la selezione proposta.

La maggior parte dei brani piu' classici e popolari e' infatti sempre presente. Ovviamente la parte del leone la fanno i brani degli anni Settanta, quei brani che hanno fatto entrare di prepotenza i Purple nel grande libro della musica popolare conquistando il cuore di diverse generazioni di persone. E a riprova di questo, nel pubblico ci sono tutti, i vecchi che erano giovani in quegli anni gloriosi, gli intermedi e i ragazzi, alcuni al loro primo concerto della band. La prima sequenza di brani viene sbattuta in faccia all'audience senza soluzione di continuita', come se fosse un blocco unico. Highway Star, da Machine Head del 72, apre il concerto come tradizione richiede. Questo brano, antesignano di tutte le car song, non cessa di trascinare e coivolgere, e Ian Gillan si diverte a imbastire un duetto con la chitarra di Morse. Dallo stesso album arriva la piu' melodica Pictures Of Home e qui bisogna essere purpleiani di lungo corso per sapere che questo bellissimo brano non e' mai stato eseguito dal vivo ai tempi di Blackmore. Stesso discorso per Bloodsucker, brano Killer da Deep Purple In Rock, 1970. Senza soluzione di continuita' arriva Strange Kind Of Woman del 1971 che nella parte finale presenta l'ormai consolidato duello voce/chitarra sapientemente adattato all'attuale voce di Gillan, che a tratti ricorda i vocalizzi di Demetrio Stratos.

Dopo questa sequenza di classici io me ne potevo anche tornare a casa soddisfatto, ma le emozioni della serata sono solo all'inizio. Un'ampia sezione centrale dello show propone svariati brani significativi dell'era Morse. Sometimes I Feel Like Screaming e' una rock ballad di rara intensita' tratta dall'importante Purpendicular del 1996, l'album della rinascita della band senza Blackmore. Le tastiere un po' emersoniane di Airey introducono Uncommon Man, brano dal penultimo Now What ?! del 2013 che celebra il non comune talento dello scomparso Jon Lord. Ben tre brani sono tratti da InfInite del 2017, il disco che potrebbe costituire il testamento definitivo del combo. La qualita' dei brani e' altissima e il gruppo mostra di credere molto nel nuovo materiale perche' esegue la sequenza con un trasporto molto intenso. Time For Bedlam, The Surprising e Birds Of Prey non sfigurano vicino ai classici della band e questo ci dice tanto sulla levatura artistica attuale della band. Lazy, ancora da Machine Head, non finisce mai di stupire per la naturalezza con cui fonde stilemi barocchi con una natura blues/boogie di rara fluidita'.

Applauditissimo l'atteso intervento all'armonica di Gillan. E' giunto il momento di meritata gloria personale per Don Airey che ci regala preziosi solismi fra Hammond, synth e pianoforte in viaggio fra svariati omaggi alla musica lirica (siamo all'Arena di Verona, un tempio di certa musica), il tutto introdotto dalle magiche note di Mr Crowley, il brano di Ozzy Osbourne che proprio Airey suonava nel disco in studio. La sequenza tastieristica si conclude con l'intro di Perfect Strangers, il possente brano che ci riporta al 1984, l'anno della mitica reunion. A questo punto il concerto comincia a entrare nella sua parte finale che inevitabilmente riconduce nuovamente a Machine Head, sicuramente l'album con piu' pezzi famosi al suo interno. Non necessariamente l'album migliore che sicuramente resta il pionieristico e innovativo In Rock. Space Truckin, anche se da anni priva di quei drammatici tour de force solistici che l'hanno reso immortale, resta un brano di grande impatto. La chiusura prima dei bis e' affidata al brano che quasi tutti i diecimila presenti aspettavano dall'inizio. Smoke On The Water e' uno di quei brani simbolo di tutto il rock da essere conosciuto e persino amato anche da chi non frequenta abitualmente le sonorita' amplificate e distorte che noi amiamo tanto. Un brano epocale, che trascina il pubblico in canti e balli sfrenati.

Sono volati novanta minuti ma la band torna presto per i supplementari regalandoci un'ulteriore ventina di minuti di grande musica. E qui andiamo ad abbeverarci alle sorgenti primarie di tutta l'avventura Profondo Porpora. Hush e' il loro primo hit, tratto dal primo album Shades Of Deep Purple targato 1968. Cinquant'anni di Deep Purple...Questo brano scoppiettante di vitalita' si trasforma a un certo punto in una scatenata jam session in cui Steve Morse e Don Airey duettano con eleganza e brio in un carosello di suoni sorretto dal groove della sezione ritmica. Un carosello di suoni che potrebbe non finire mai. Infine il bravo Glover si produce in un trascinante bass solo che prelude al riff immortale di Black Night, altra grande hit a 45 giri del 1970. I Deep Purple, grande band da album, da concerti con lunghe sequenze strumentali, non ha mai snobbato il settore dei singoli,ed e' anche per questo che rimane un gruppo amato dalla gente. Stiamo parlando di brani immediati dal grande potenziale rock naturalmente. Steve Morse ci conduce verso l'estasi finale con un ultimo lungo grande assolo dove vengono citati i "rivali" strorici Led Zeppelin. Il pubblico entusiasta e affettuoso, il pubblico che come abbiamo visto e' formato da nonni, padri, figli e nipoti, tributa un ultimo grande saluto a una band senza la quale forse la maggior parte della musica di cui ci occupiamo non sarebbe semplicemente mai esistita. Grazie Deep Purple, con voi tutto sembra piu' bello ed emozionante. 

Silvio Ricci